Nelle scorse settimane, a seguito della pubblicazione dei miei articoli sul concorso per l’estensione del Palazzo dei Diamanti di Ferrara[1] e sul concorso per la Ricostruzione della Basilica di San Benedetto di Norcia[2], mi è capitato di discutere con colleghi seriamente convinti che, quando si operi su di un edificio storico, lo “zeitgeist” risulti non solo necessario, ma addirittura rispettoso dell’edificio stesso!
Costoro non sanno, o fingono di non sapere, quelli che possano essere gli effetti collaterali di un intervento irrispettoso delle preesistenze.
Ciò che sfugge a tanti professionisti accecati dall’insegnamento ideologico ricevuto – che li istiga al “famolo strano, famolo contemporaneo” – è che, a parte il discorso estetico che potrebbe farsi su certe realizzazioni, occorrerebbe rendersi conto che determinate strutture e determinati materiali, il cui peso, rigidità e comportamento statico risultano drasticamente differenti dalla struttura originaria, possono risultare molto, ma molto dannosi per le preesistenze.
A Ferrara poi, queste cose dovrebbero saperle bene, visto che la stragrande maggioranza dei crolli verificatisi in occasione del terremoto di qualche anno fa sono stati registrati a carico di edifici antichi che erano stati manomessi sostituendo i solai e tetti originari, oppure inserendo cordoli in cemento armato.
A partire dall’aprile del 2009[3] ho scritto e documentato molto approfonditamente queste cose, pubblicando anche i dati dei lavori di “consolidamento” eseguiti dalla Soprintendenza sulla Chiesa delle Anime Sante di L’Aquila e terminati nel Novembre 2008 che ne hanno determinato il crollo nell’aprile 2009.
Nel dibattito di questi giorni, come si è detto, c’è stato chi, appellandosi alle teorie di Cesare Brandi, non avendo alcuna argomentazione logica, ha tirato fuori discorsi idioti sulla necessità di prevenire la “falsificazione della storia”, “lasciando un segno del proprio tempo”.
Personalmente ritengo che sia ora di farla finita con queste “violenze architettoniche legalizzate”, per cui ritengo che, chi non sia in grado di comprendere queste cose debba fare altro nella vita, piuttosto che violentare il nostro patrimonio storico architettonico.
Considerato che parole così dure potrebbero essere fraintese, specie da parte di colleghi in malafede e/o ideologicamente compromessi, ho ritenuto utile ripubblicare, anche su questo blog, l’articolo che segue, scritto circa due anni fa. Nel testo, infatti, parlavo delle motivazioni che rendono indispensabile il rispetto del bene e del bello condiviso, piuttosto che la considerazione del volere egoistico e ideologico del singolo “restauratore” o teorico del restauro.
Architettura e Guerra – Se la ricostruzione fa più male delle bombe[4]
Le guerre, da sempre, lasciano segni così profondi da far sì che nulla e nessuno possa farle dimenticare. Sin dall’antichità i signori della guerra si sono serviti di uomini (anche se è difficile poter adoperare questa definizione), disposti a far violenza sulle persone e le cose, affinché l’offesa e il terrore potesse rimanere a perpetua memoria del loro passaggio e della sconfitta.
La storia antica e recente è carica di storie di città rase al suolo, di donne e bambine violentate e ammazzate in nome della vittoria, di bambini e vecchi massacrati, di teste mozzate e impalate per ammonire chiunque dalla possibile idea di resistenza e vendetta. Non mi riferisco alle violenze dell’ultim’ora firmate ISIS, ma anche a quelle meno recenti che hanno visto “cristianissime” forze armate compiere violenze assolutamente identiche a quelle che oggi stiamo condannando. Per non andare tanto lontano si potrebbe ricordare le ignobili violenze operate dai piemontesi sui meridionali d’Italia (nell’interesse degli inglesi e francesi, oltre che loro), violenze ignobili che non solo non sono mai state condannate, ma che addirittura hanno portato alla folle creazione di un museo della vergogna, quello dedicato agli “studi” di Cesare Lombroso, dove molte teste mozzate starebbero a dimostrare le sue folli teorie razziste!
Che dire delle analoghe violenze francesi in Algeria? O di quelle angloamericane negli ultimi conflitti in Afghanistan, Iraq e Libia? O di quelle regolarmente operate dai coloni abusivi israeliani contro i palestinesi?
Sarebbe quindi ora di farla finita con l’ipocrisia (razzista) che vedrebbe schierati in maniera opposta un occidente civile, pacifico e colto da una parte, e dall’altra un Medioriente incivile, bellicoso e ignorante.
Il protocollo dei signori della guerra è sempre lo stesso, dall’antichità ad oggi.
Creazione di turbolenze interne ai Paesi (rigorosamente da far credere al mondo come sommosse contro il cattivissimo “regime” locale), “interventi di pace” per cacciare i “tiranni”, mediante l’uso di squallidi ed ignobili mercenari, disposti ad ammazzare i propri simili in nome del denaro e non di certo per difendere ideali di pace e libertà.
Tutto questo, da sempre, ha comportato distruzioni e ammazzamenti e, soprattutto, ha comportato il tentativo di cancellare per sempre quella memoria in grado di risollevare l’amor patrio e l’orgoglio della gente.
Come ricordava il compianto prof. Paolo Marconi nell’introduzione al mio libro “La Città Sostenibile è Possibile[5]” infatti, in occasione della 2^ Guerra Mondiale «il trauma ha soprattutto riguardato il modo di concepire l’oggetto d’Architettura in quanto coerente linguisticamente col suo intorno: il Paesaggio, il Borgo, la Città e destinato dunque a fornire agli uomini un ambiente[6] entro il quale vivere e svilupparsi civilmente. Un ambiente la cui eventuale distruzione traumatica provocherebbe gravi disagi, producendo stati maniaco-depressivi tali da destabilizzare le popolazioni. E la Seconda Guerra Mondiale aveva mirato alla distruzione di città intere allo scopo non solo di colpire i centri industriali più importanti, ma anche di distruggere il maggior numero di abitazioni, a cominciare da Varsavia, distrutta dalla Luftwaffe nazista il primo settembre del 1939. A questo seguì la distruzione di Coventry in Inghilterra, cui gli inglesi risposero col bombardamento di Monaco, fino a deliberare nel 1942 una campagna di bombardamenti a Colonia, Amburgo, Kessel, Berlino, Norimberga, Dresda (quest’ultima il 13 febbraio 1945). Negli stessi anni gli Alleati bombardarono l’Italia, mirando soprattutto agli obiettivi civili per demoralizzare la popolazione e provocare rivolte contro il Regime. Seguirono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki in Giappone, e con essi la Guerra terminò».
Questa brevissima (e incompleta) premessa vuol riassumere quelle che sono le ragioni e le conseguenze della guerra e, soprattutto, serve a comprendere meglio le ragioni per le quali, al termine della guerra, risulterebbe indispensabile mettere da parte le ideologie culturali e pensare, in primis, ad una ricostruzione delle identità perdute, lasciando decidere il popolo ferito, piuttosto che consentire al teorico di turno di imporre le sue scelte ideologiche.
Quando ero studente di architettura mi imbattei in un testo utilissimo, oggi più che mai attuale, che mi segnò profondamente: “Teoria e Storia del Restauro” di Carlo Ceschi.
In particolare mi colpì il capitolo XII, Esperienze di Guerra e Problematiche della Ricostruzione dove, in maniera umile e obiettiva, l’autore raccontava come l’orribile evento bellico avesse mandato a farsi friggere tutte le pompose teorie del restauro sviluppatesi dalla Carta di Atene del ’31 in poi.
Ceschi inizia così quel capitolo:
«Le notti del 22 e 23 ottobre 1942 la guerra nella quale anche gli italiani si erano trovati coinvolti, ebbe una svolta decisiva.
In quelle notti iniziarono con Genova i bombardamenti aerei a tappeto che dovevano subito dopo ripetersi a Torino e Milano e via via intensificarsi per tutta l’Italia.
Da quelle notti chi come me si trovò a fronteggiare l’azione devastatrice della guerra sui monumenti, capì che le teorie del restauro, caute ed equilibrate, da pochi anni entrate nella pratica dei restauratori subivano un grave colpo, mentre si faceva drammatico il problema della conservazione delle vecchie città e dell’ambiente storico tradizionale».
Andando avanti in quel capitolo, e raccontando quello che potesse essere il conflitto morale nell’anima di chi doveva operare, Ceschi cita un suo articolo del 1943[7] nel quale spiegava bene quello che potesse – ed è tutt’oggi – il dilemma:
«La distruzione di un monumento d’arte ha sempre superato nella memoria anche lo stesso dolore per la perdita delle vite umane, per il fatto che la natura seguita a provvedere al rinnovamento degli uomini, la cui vita è limitata nel tempo, mentre nessuna forza naturale potrà mai produrre l’opera d’arte perduta, anche se questa era nata per l’eternità […]. È chiaro che l’urbanistica deve oggi considerare il fattore guerra, apparso in tutta la sua formidabile importanza soltanto dopo l’intensificarsi dei bombardamenti aerei […] È degno delle nostre tradizioni di cultura e intelligenza questo reagire col pensiero alla brutalità degli eventi, questo superamento della sofferenza in una ricerca di spiritualità fattiva, questo prepararsi ai compiti costruttivi del domani, in pieno processo distruttivo. Bisogna soltanto che ogni nostro pensiero sia posto su un piano di ordine morale quanto più alto e perfetto possibile, perché le opere che da esso discenderanno sul piano d’ordine pratico siano espressione di un ideale superiore non contaminato da interessi volgari ed egoistici. Nei centri originari delle nostre città, edifici comuni ed edifici artistici coesistono, variamente collegati tra loro, a costituire quel cosiddetto ambiente che ne forma la caratteristica fisionomia.
[…] È necessario che il fattore economico, finora dominatore assoluto di ogni decisione urbanistica, venga riportato al suo giusto posto di subordinazione e che l’interesse privato cessi di avere valore risolutivo.
La città è dominio pubblico anche se composta di proprietà private, essa è l’ambiente in cui vivono, lavorano, producono tutti i cittadini, e le sue strade, le sue piazze, i suoi giardini ed anche le facciate delle case che limitano le strade e piazze costituendone la fisionomia, appartengono alla vita comune. Questo concetto fondamentale è necessario tenere presente nel preordinare la fase ricostruttiva delle nostre città ferite».
Potrei andare avanti nel citare quel testo illuminante, ma queste righe sono più che sufficienti a far capire quanto risulti importante il rispetto del bene e del bello condiviso, piuttosto che la considerazione del volere egoistico e ideologico del singolo “restauratore” o teorico del restauro.
La teoria del restauro, messa davanti al dramma della guerra è andata in pezzi, i cittadini hanno chiesto – e fortunatamente ottenuto, nonostante le critiche violente di Cesare Brandi – la ricostruzione di edifici e brani di città nei quali si identificavano: il senso di appartenenza, il senso di identità è di gran lunga superiore a qualsivoglia stupida accusa di falsificazione della storia! Se oggi possiamo ancora godere della vista di Palazzo Bianco e Palazzo Serra a Genova, o del Tempio di Augusto a Pola, o del Ponte di Santa Trinità a Firenze, della Loggia della Mercanzia a Bologna, del Tempio Malatestiano di Rimini, dell’Abbazia di Montecassino, ecc., lo dobbiamo al coraggio e all’onestà intellettuale di chi, nonostante l’ideologia cieca del Brandi e dei suoi seguaci, seppe operare nel rispetto della volontà di ricostruzione di un’identità ferita!
Nelle 2016, grazie all’intervento russo e siriano che ha portato alla liberazione (questa volta reale) di Palmira dalle folli forze dell’ISIS, responsabili della distruzione di monumenti di inestimabile valore storico motivate dalle stesse ragioni di cui sopra, si è scatenata una assurda polemica sulla ricostruzione o meno dei monumenti distrutti.
Agghiacciante immagine di Palmira prima e dopo l’ISIS
Mentre il Direttore delle Antichità della Siria, appoggiato dagli esperti russi, annunciava l’intenzione di ricostruire, entro 5 anni quanto distrutto, incluse le opere “polverizzate”, dalle pagine di “The Guardian” l’esperto d’arte Jonathan Jones titolava “Palmira non deve essere restaurata. La storia non ci perdonerebbe mai”. Jones sosteneva che «A volte è meglio che le rovine vengano lasciate come rovine. Il fatto che disponiamo di stampanti 3D che consentirebbero di annullare gli atti di vandalismo di Isis non significa che dovremmo usarle! Palmira non deve “ricostruirsi”, come il direttore delle antichità della Siria ha promesso. Non deve essere trasformata in una replica falsa del suo antico splendore. Invece, ciò che resta di questa antica città, dopo la sua distruzione da parte dell’ISIS – è per fortuna molto più di ciò che molta gente temeva – dovrebbe essere onestamente conservato a livello tattile e sensorio. L’onestà deve iniziare con la fama ritrovata di Palmira».
Jones diceva che «il Tempio di Bel, l’Arco di Settimio Severo e il Tempio di Baalshamin sono stati distrutti e quel poco che resta deve esser lasciato così com’è, al massimo ripristinato per anastilosi ciò che è possibile, oppure i frammenti portati in un museo, ma, assolutamente non possono essere ricostruiti, perché, nonostante le aspettative del mondo, questo sarebbe un approccio sbagliato, in quanto il restauro è un’arte delicata, e la conservazione responsabile delle antichità deve significare accettare la finalità di perdita, per cui la ricostruzione potrebbe essere ingannevole».
Nella sua crociata anti-ricostruzione, Jones si spingeva ad attaccare la ricostruzione parziale del Palazzo di Cnosso a Creta da parte dell’archeologo britannico Arthur Evans, dicendo che avrebbe creato uno strano disordine nel suo arrogante restauro.
Mi è sembrato di risentire Cesare Brandi che accusava gli “stolti” ricostruttori del Campanile di Venezia (bastava metterci una torre moderna che con la sua presenza, un segno, ricordasse il vecchio campanile, piuttosto che aver commesso questo vergognoso falso!), oppure contro la ricostruzione del Ponte di Santa Trinità a Firenze con parole simili.
Ma cos’è più arrogante?
È forse più arrogante il rispetto della volontà della popolazione intera di ricostruire ciò che si è perduto? O l’atto egoistico del teorico del restauro di turno (spesso privo di alcuna conoscenza della pratica costruttiva, essendo uno storico e non un architetto) di fare come a lui piace, per poter confermare le proprie stupide teorie?
Prima dell’avvento delle teorie moderne del restauro, l’opera di ricostruzione era ritenuta cosa buona e giusta, quando un tempio cadeva in rovina lo si ricostruiva com’era, o ancora più classico e bello, perché la sua presenza risultava fondamentale per la collettività e per l’identità di un luogo … e questo ancora accade in India e Giappone, per esempio.
Aver esteso all’architettura e all’urbanistica il concetto di “falsificazione della storia”, peraltro nato per tutelare il mercato nero dei reperti antichi, è cosa folle!
Molti tendono a fare ulteriore confusione, andando a ricercare le origini di questa follia negli anni in cui le “sinistre” erano al potere, riportando il tutto all’abominevole Carta di Venezia del 1964 … ignorando del tutto il fatto che certe idee in Italia fossero state introdotte molto prima, con la legge fascista del 1938, “Istruzioni per il Restauro dei Monumenti”, che al punto 8 ammoniva: «per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in «stili» antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte».
Non starò qui a ripetere quanto ho avuto modo di scrivere su questo delicatissimo tema[8], per cui voglio riportare il discorso sull’importanza di ricostruire, e subito, quanto perduto a Palmira – e in altri siti del mondo – in nome della folle ignoranza di una banda di criminali mercenari, così idioti dal non accorgersi (o forse ne sono perfettamente consapevoli perché quello potrebbe essere il fine ultimo) che, col loro operato, non solo stanno danneggiando il patrimonio storico, ma stanno altresì minando l’Islam, facendo crescere la vena d’odio razzista nei confronti del mondo islamico, del quale l’ISIS rappresenterebbe una percentuale irrisoria e di certo non rappresentativa di quella fede!
Torno infatti a ricordare quella che è generalmente la strategia distruttiva delle guerre: sradicare le radici dei popoli mediante la distruzione traumatica dell’ambiente nel quale un popolo si riconosce ed immedesima, perché quella distruzione è in grado di provocare gravi disagi, producendo stati maniaco-depressivi tali da destabilizzare le popolazioni e annientarle. Venuti meno quei simboli, venuto meno quell’ambiente nel quale si è cresciuti e immedesimati, e che si era sempre creduto inviolabile, vengono meno tutte quelle certezze, quel senso di appartenenza, che dà la forza di combattere in nome di un qualcosa che travalica le identità singole in nome di una identità collettiva.
Questo dovrebbe essere il motivo per cui sarebbe follia non ricostruire ciò che è venuto giù con la forza dell’ignoranza e dell’arroganza!
Non ricostruire i monumenti di Palmira significherebbe darla vinta ai signori della guerra, poiché la loro sconfitta sul campo lascerebbe comunque a perpetua memoria del proprio passaggio, la cancellazione di quei monumenti che per oltre 2000 anni avevano costituito l’identità di una nazione!
La ricostruzione andrebbe altresì operata per rispettare la memoria del povero grande “martire dell’arte”, l’ottantaduenne Khaled al-Asad, custode dell’antico complesso di Palmira e, padre di undici figli, vigliaccamente torturato per mesi e pubblicamente decapitato in piazza ed appeso ad un pilastro di fronte al museo, reo di aver dedicato la sua vita a quel sito archeologico, fino a farlo inserire nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco.
Anche per questo, quando ho letto l’articolo di Jones, ho reagito rabbiosamente, affermando che l’ignoranza e l’arroganza degli adepti della Carta di Venezia e del Memorandum di Vienna sembra non aver più limiti!
Il Patrimonio Mondiale non può dipendere dalla volontà di questi ignoranti senza cuore, perché la perdita di un monumento è la perdita dell’identità di un popolo e, se vogliamo realmente aiutare queste povere popolazioni a ricostruire se stesse, dobbiamo in primis provare a ricostruire la loro identità!
Questo va fatto ricostruendo ciò che possa risvegliare il loro senso di appartenenza alla propria terra, ovvero mediante la ricostruzione dei loro monumenti, indipendentemente dal capriccioso e stupido egoismo degli adepti della Carta di Venezia!
A tal proposito, vorrei ricordare, ed aggiornare, quanto ebbi modo di raccontare, al ritorno da un meraviglioso viaggio in Armenia e Nagorno-Karabakh, relativamente ad un piccolo e molto significativo intervento operato dal mio caro amico e collega Maxim Atayants il quale, a Qaraglukh (Nagorno-Karabakh), villaggio di origine della sua famiglia posto a circa 30 chilometri dal confine con l’Iran, ha costruito una chiesetta dedicata a San Giovanni Battista ed ha ricostruito per anastilosi il Monumento ai Caduti della 2^ Guerra Mondiale. Queste opere hanno avuto l’intento di riportare vita in quello sperduto e splendido angolo del pianeta, dimenticato dal mondo!
Non è passato molto tempo, ma per noi occidentali che non l’abbiamo vissuta direttamente, l’orribile guerra combattuta in Azerbajan sembra essere lontanissima … eppure sono passati pochi anni dalla sua fine nel 1994.
Quel conflitto s’è combattuto tra il ’92 e il ’94, ma già prima di allora una serie di orribili violenze si erano perpetrate a completamento del tentativo di pulizia razziale operato dai turchi a partire dal 1915. Il villaggio di Qaraglukh, era stato drammaticamente raso al suolo nel 1991.
Nulla venne risparmiato, dal Monumento ai Caduti alle lapidi del cimitero, tutto venne distrutto con un accanimento spaventoso. Da allora il tempo sembra essersi fermato, così gli unici segni di vita tra le mura del villaggio, oltre agli splendidi alberi carichi di ottimi gelsi, sono le tracce lasciate dal passaggio delle mucche e dei maiali che scorrazzano liberamente tra le rovine.
I sopravvissuti che hanno coraggiosamente deciso di rimanere in zona, si sono spostati a valle, nelle tristi baracche di un agglomerato che hanno chiamato Apostoli. Di lì sognano di tornare a Qaraglukh … ma ci vorrà del tempo, perché l’incubo di un ritorno di fiamma con i turchi è sempre dietro l’angolo.
Viaggiando per il Nagorno-Karabakh, le immagini di devastazione non si limitano al solo villaggio di Qaraglukh, l’intera Regione infatti, specie in quest’area sudorientale, è disseminata di rovine e abbandono … ma c’è qualcos’altro che colpisce il viaggiatore, specie se il viaggiatore è un architetto: qui si ricostruisce ciò che si è perduto, e lo si fa nel profondo rispetto delle tipologie e delle tecniche tradizionali! Specie per quello che riguarda il restauro, la ricostruzione o la realizzazione di nuove chiese, non v’è ideologia compositiva che tenga: gli architetti si uniformano spontaneamente al desiderio condiviso di rivedere in vita i simboli del sacro, non c’è nemmeno bisogno di discutere.
Così come un bambino appena nato automaticamente sa cosa deve fare per nutrirsi al seno materno, qui chi progetta una chiesa sa che deve rispettare determinate regole, immutate a partire dal 301, quando la Religione Cristiana venne proclamata religione di Stato da Tiridate III. Nessun architetto progetta una chiesa per celebrare se stesso, né tantomeno nessun prelato immagina, come avviene da noi, che l’immagine della Chiesa debba “essere al passo coi tempi”. Qui occorre solo di ripristinare i simboli – immutati – del Cristianesimo, e con essi riaffermare il senso di appartenenza di questa gente, vittima anche dell’indifferenza del mondo intero rispetto alle sofferenze che ha patito.
Tutto questo per me rappresenta una grande lezione morale nei confronti della nostra società, specie nei confronti del Cattolicesimo che, grazie a delle politiche d’immagine molto discutibili, sta vedendo i fedeli perdere d’interesse nei confronti delle nuove chiese e “opere d’arte” sacra e, con questo, sta rischiando la perdita d’interesse dei fedeli verso la sua stessa istituzione.
Girando per il Nagorno-Karabakh, in moltissime occasioni, come a Ptgni, Aruch, Talin, Hagharstin, ecc., mi sono imbattuto in chiese in rovina che mostrano il passaggio costante di fedeli che continuano a venire a pregare, lasciando icone ed ex-voto all’interno di ambenti sconsacrati da secoli … per la gente queste sono e rimarranno per sempre delle chiese!
Per la gente questi sono simboli nei quali identificarsi orgogliosamente, queste sono ferite che occorre rimarginare in nome di una fede senza tempo, una fede che non è mai stata vittima del consumismo e della società dello spettacolo, una fede pura e spontanea che, anche grazie alla sua purezza e spontaneità, non indispettisce né insospettisce i fedeli, i quali continuano a popolare gli edifici di culto, anche quelli in rovina, sentendosi protetti e vicini al Signore.
Anche per questa ragione gli architetti, i mastri e muratori armeni coi quali ho potuto parlare mi hanno chiaramente fatto capire che per loro non v’è distinzione alcuna tra “restauro” e “realizzazione” di una chiesa.
Gli “eroi” Marat, Shavarsh, Harut e Zolak, realizzatori della chiesa progettata da Maxim Atayants a Qaraglukh, ma anche la Direttrice dei Lavori, l’arch. Manushak Valeri, esperta di restauro e conservazione, mi hanno raccontato delle decine di lavori svolti negli ultimi venti anni senza fare alcun distinguo tra nuovo e vecchio, anche perché molti dei lavori svolti sono opere di ricostruzione fedele di chiese perdute a seguito di antichi terremoti o della violenza turca dei primi anni ’90.
Ma non si tratta solo di architettura sacra, perché anche le opere d’arte, come le sacre icone, oggi vengono realizzate nel più rigoroso rispetto della simbologia illuminata altomedievale, e la cosa non disturba né gli architetti, né gli artisti, né i prelati! … Non sarà che siamo noi “occidentali colti ed evoluti” ad essere in difetto? E perché?
Questo viaggio mi ha segnato nel profondo.
Riflettendo sul significato più profondo dell’opera ricostruttiva degli edifici cristiani del Nagorno-Karabakh emerge l’importanza dell’aspetto psico-sociologico del dramma della guerra e della conseguente necessità di ricostruzione dei simboli di appartenenza di un popolo ad una terra e ad un Dio.
Soprattutto, oggi sappiamo che quel piccolo progetto messo in atto da Maxim Atayants è riuscito nel suo intento: già diverse case sono in fase di costruzione: la presenza dei simboli in grado di risvegliare l’identità di un popolo – la Chiesetta di San Giovanni e il Monumento ai Caduti – hanno svolto quel ruolo svolto nel medioevo dalla “chiese matrici” che, attirando le genti fuggite in campagna, facevano tornare la vita nelle città abbandonate.
Questo è un messaggio importante rivolto a tutti coloro i quali pretendono di poter fare un progetto architettonico o un restauro dedicato a se stessi, piuttosto che soddisfare la volontà popolare di avere uno spazio concepito o ricostruito secondo quei canoni progettuali che non necessitano di una “spiegazione colta” da parte del presunto esperto di architettura!
Una delle peggiori violenze che si può fare ad una popolazione è quella di strapparle le sue tradizioni e i suoi rituali … lo aveva ben compreso perfino Augusto che, anche grazie a questo, fu in grado di riportare la pace nel mondo romano.
Perché mai dovremmo imporre alla gente di cambiare le sue usanze e costumi? Perché mai non dovremmo ricostruire un monumento, solo perché agli occhi dell’esperto di turno questo significherebbe una copia e non un originale?
La guerra distrugge, ma la non ricostruzione, o la ricostruzione sgrammaticata che ignora il carattere dei luoghi, possono fare molti più danni delle bombe, perché priverebbero le popolazioni della possibilità di risvegliare il proprio senso di appartenenza e di comunità.
Non dimentichiamolo mai!
Se questo è vero per gli edifici
danneggiati o demoliti, è altrettanto vero per gli edifici storici su cui,
grazie alla cialtronaggine intellettualoide radical-chic di politici,
soprintendenti e mercanti d’arte, molti architetti autocelebrativi – incapaci
di rispettare nulla che non sia il proprio ego – sono ben felici di realizzare
mostruosità di ogni genere … sebbene “rispettose”
di bandi di concorso deliranti!
[1] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2019/01/10/concorsi-di-architettura-e-lamentele-forse-bisognerebbe-porsi-delle-domande/
[2] http://www.picweb.it/emm/blog/index.php/2019/01/28/riflessioni-preventive-sul-concorso-internazionale-per-la-ricostruzione-della-basilica-di-san-benedetto-a-norcia/
[3] https://www.ilcovile.it/news/archivio/00000524.html
[4] Saggio pubblicato sulla rivista “Dionysos” N°1 – Aprile-Giugno 2016, Edizioni Tabula Fati, ISBN-978-88-7475-872-2
[5] Ettore Maria Mazzola, “The Sustainable City is Possible – La Città Sostenibile è Possibile”, prefazione di Paolo Marconi, GANGEMI Editore, Roma 2010
[6] «Lo spazio circostante considerato con tutte o con la maggior parte delle sue caratteristiche … Complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale una persona si trova, si forma, si definisce …» dal VOCABOLARIO Devoto Oli, 1987
[7] “Sistemazione urbanistica dei vecchi centri bombardati e restauro dei monumenti danneggiati” pubblicato sul numero di Ottobre 1943 della rivista Genova
[8] Cfr. per esempio “Riflessioni sul Falso Storico” disponibile on-line (http://www.thinktag.it/it/resources/riflessioni-sul-falso-storico)
Concordo sulla necessità che l’architettura, in quanto intervento sul territorio, debba essere rispettosa del territorio e delle costumanze di chi vive in quel territorio, anche se nutro una certa diffidenza verso l’architettura “spontanea” conoscendone fin troppo bene i risultati reali che hanno così arricchito in bellezza il nostro territorio, soprattutto in quella parte d’Italia da cui entrambi proveniamo e che pare non sia molto amata dai suoi figli, i quali hanno fatto di tutto per stravolgerne l’aspetto e il carattere, e nei casi migliori – si fa per dire – non riescono ad altro che scopiazzare le idee, gli schemi, i linguaggi di culture estranee, viste come pìù avanzate, moderne, all’altezza dei tempi…..
Elaborare una propria visione, non solo dell’architettura, ma anche del concetto di vita, pare proprio che sia un’impresa al di sopra delle capacità di tanti nostri connazionali. Peccato.
I falsi storici? Sono un ‘invenzione dei Soloni (autoconsacratisi custodi della correttezza artistica, politica e comportamentale da loro stessi definita) che conosco benissimo, grazie all’esperienza diretta che ho avuto modo di accumulare in decenni di professione, in continua lotta con P.R.G, soprintendenze, commissioni edilizie e pinzillacchere varie.
Ma mi piacerebbe che qualcuno cominciasse a far notare ai suddetti Soloni (visto che non ci arrivano da sé) la plateale contradizione fra il loro strenuo difendere la libertà dell’arte (quando si tratta di obbrobri architettonici o di qualunque altro tipo) in nome del diritto d’un artista ad esprimersi nel linguaggio che preferisce, e il divieto, che vorrebbero imporre, di servirsi d’un linguaggio che non piace a loro.
E’ un altro macroscopico esempio della dittatura che il Grande Fratello esercita, sempre più pesantemente, su quello che si autodefiniva il Mondo Libero.
Ma qui le considerazioni da fare sarebbero troppe……