Il lavoro nobilita l’uomo … e può anche risolvere i conti pubblici – una lezione dal passato

Prefazione

1910 vista aerea progetto di Testaccio – Giulio Magni

In questi anni, ho più volte raccontato della vicenda del quartiere Testaccio di Roma come di un esempio che, a livello sociale, economico ed urbanistico, dovrebbe essere preso a modello per il risanamento sostenibile – vero e non presunto – di tutte le nostre città.

Nei miei libri[1], ma specie nei miei studi di fattibilità per la “rigenerazione urbana” dei quartieri Corviale di Roma[2] e ZEN di Palermo[3] ho cercato di dimostrare come, senza dover reinventare la ruota, semplicemente riprendendo in mano una serie di norme e strumenti che vennero cancellati dalle cosiddette “leggi fascistissime” del 1925 – ’26, non solo potremmo rendere dignitose le nostre periferie e città, ma potremmo davvero risanare (e portare in positivo) i conti pubblici, risolvendo al contempo il problema abitativo e della disoccupazione!!

Non essendo questo il luogo ove tornare in maniera approfondita su quegli argomenti, invito chi voglia saperne di più a cliccare sui link indicati in precedenza e/o ad acquistare i testi segnalati.

L’aspetto che infatti vorrei approfondire in questa sede riguarda l’illuminante e coraggiosa strategia socio-economica adottata per la gestione della disoccupazione, nell’opera di “riqualificazione” e completamento di quel quartiere romano che, fino al 1905, risultava il più turbolento e pericoloso della città, con fenomeni violenti ben peggiori di quelli vissuti nelle banlieuses parigine nel 2005!

La ragione per cui ho deciso di scrivere questo testo è semplice. In questi giorni l’Italia sta vivendo un grande dibattito – o forse semplicemente una strumentalizzazione – relativa al cosiddetto “reddito di cittadinanza” e/o “reddito di inclusione[4] proposti da alcuni schieramenti politici.

C’è chi ritiene queste misure un atto dovuto e c’è chi, invece, le ritiene una follia … ma c’è anche chi stia strumentalizzando ad-hoc la cosa, legandola al fenomeno dei rifugiati e migranti, infestando la rete con post che “dimostrerebbero” come questa misura venga presa “solo a favore degli stranieri, piuttosto che degli italiani” …

Lo squallore e l’ignoranza di questa polemica è il frutto di una società malata – e sempre più ignorante – che mira ad allontanare la gente incutendole terrore e diffidenza, che mira a distruggere i rapporti sociali e la solidarietà, fomentando il razzismo e la “guerra tra poveri”, con l’obiettivo finale di creare popolo bue che crede nel suo presunto benefattore il quale, in realtà, lo affama e denigra.

Eppure, se gli italiani imparassero a mostrarsi diffidenti nei confronti dei politici e dei pennivendoli ad essi asserviti, piuttosto che nei confronti del “diverso”, forse potrebbero accorgersi di come stiano realmente le cose e di come potrebbero risolversi.

Soprattutto, se nelle scuole e nelle università si insegnasse in modo neutrale e non dogmatico/ideologico, probabilmente la gente non si farebbe infinocchiare così facilmente e, magari, si renderebbe conto che, piuttosto che guerreggiare contro chi stia peggio di lei, tirerebbe su delle barricate contro chi la manipoli e la faccia vivere in condizioni sempre più inaccettabili!

Non si tratta più di essere di destra, di sinistra o “grillino”, come qualcuno in malafede potrebbe sostenere, bensì semplicemente di comprendere che gli esseri umani sono tutti uguali e, come tali, rispettabili! Si tratta semplicemente di capire che colui che siamo stati portati a credere essere un “diverso”, “poveraccio”, “reietto”, ecc., nella realtà non è un troglodita da marginalizzare, ma un essere umano come un qualunque altro il quale, se venisse messo nelle condizioni di potersi sentire parte della società, si comporterebbe di conseguenza.

Chiunque venga messo nelle condizioni di potersi “identificare” nella società in cui vive, chiunque provi quindi un “senso di appartenenza” a quella società, si guarderà bene dal combatterla … semmai ne diverrà uno strenuo difensore!

Non è un caso se, ai primi del Novecento, una volta comprese e risolte le ragioni per le quali al Testaccio si registravano fenomeni violenti verso le persone e verso il bene comune, si riconobbe come un certo tipo di urbanistica e architettura, in grado di generare un senso di appartenenza dei residenti, potesse svolgere un ruolo fondamentale nel miglioramento della società … tanto che si arrivò a riconoscere che:  «[…] se (l’urbanistica)  può facilitare la fusione tra le classi, la società le sarà debitrice della risoluzione di un compito importante»[5].

Domenico Orano

Addirittura, una volta “rigenerato” il quartiere – grazie all’opera di Domenico Orano e del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, nonché degli ingegneri Giulio Magni e Quadrio Pirani – si arrivò a dimostrare che la casa e l’arte potessero svolgere un ruolo educativo, tanto che, il Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi, nel 1918, nel testo “Il nuovo gruppo di case al Testaccio”, si spinse ad affermare:

«Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita». … Alcuni anni dopo, riconoscendo quello che era stata la corretta politica operata dall’ICP, il presidente dell’ICP Alberto Calza Bini, scrisse: «[…] l’Ente dedicò le maggiori cure affinché la concezione tecnica fosse indissolubile da quella artistica per la casa sana ed educatrice […][6]».

Veniamo quindi al punto.

Ai primi del Novecento, grazie alla speculazione edilizia privata in mano a banchieri, nobili e clero, il Comune di Roma era in bancarotta. Il sistema della convenzione[7], teorizzato dal cardinale De Merode, aveva infatti portato all’arricchimento spropositato dei proprietari terrieri – divenuti costruttori – ed al collasso totale delle finanze pubbliche. Il sistema aveva altresì portato alla marginalizzazione degli immigrati e degli operai, “parcheggiati” in quartieri privi di qualsivoglia servizio, le cui case – prive di salubrità, privacy e dignità – dietro delle facciate “decorose”, nascondevano condizioni di vita impossibili e fenomeni di violenza inauditi.

Una delle osterie di Testaccio dove poter acquistare del vino ai primi del Novecento

Gli unici luoghi “socializzanti” del quartiere Testaccio, erano pochissime squallide bettole dove era possibile acquistare un pessimo vino per potersi ubriacare – illudendosi di dimenticare i problemi della vita – ed andare a dormire in un letto pulcioso, rigorosamente condiviso con qualche altro disperato con cui dividere le spese di alloggio.

Il proto sociologo Domenico Orano – ovviamente schedato dalla polizia come anarchico insurrezionalista – ebbe il coraggio di trasferirsi a vivere, per ben 5 anni, in quella realtà, descrivendola in numerosi saggi e libri[8] che oggi meriterebbero di essere studiati approfonditamente in tutte le facoltà di architettura, sociologia, economia e scienze politiche.

Anni fa, seguendo la mia passione per la Storia dell’Urbanistica di Roma e per la Sociologia Urbana, mi imbattei casualmente nel lavoro di Orano e nella storia dello sviluppo del quartiere Testaccio, rimanendone folgorato.

Ernesto Nathan

Stavo sviluppando il progetto dimostrativo per la Rigenerazione Urbana del Corviale di Roma e compresi che, semplicemente riprendendo in mano il lavoro di Domenico Orano, Luigi Montemartini, Alessandro Schiavi, ma anche di Patrick Geddes ed Henry Sellier, unitamente alla normativa, agli strumenti e le strategie di sviluppo messe in atto all’epoca della giunta Nathan seguendo quegli insegnamenti, sarebbe stato possibile provare a ridare dignità alle nostre periferie e, al contempo, rimettere in piedi la nostra economia!

La conoscenza della vicenda testaccese e romana, a partire dal 1905, risulta dunque molto utile per comprendere come approcciare e risolvere il problema abitativo, quello della disoccupazione e quello gestionale delle problematiche collegate.

Nell’epoca in cui, a livello meramente ipocrita si scrivono norme che prevedono la necessità di un “sistema partecipativo” nella pianificazione urbana, ritengo che per tutti i “grandi esperti” i quali, dall’alto della propria ideologia, impongono soluzioni sperimentali all’avanguardia, la conoscenza di quella vicenda potrebbe risultare una vera e propria rivelazione, in grado di fargli abbandonare il fallimentare approccio “top – down” in nome di un sano ritorno al “bottom-up”.

Infatti quella vicenda, sociale prima e politico-economica poi, ci insegna come, l’aver saputo ascoltare le lamentele e i desideri di chi stesse dall’altra parte della barricata, piuttosto che degli slogan elettorali o l’ideologia di un architetto … abbia condotto il Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio ad un successo senza precedenti che, con un po’ di buona volontà, oggi potrebbe ripetersi.

La vicenda

Quando in quel quartiere malfamato imperversava la violenza, quando le aspettative di vita e di riscatto sociale erano pari a zero, quando la mortalità e le epidemie registravano percentuali altissime rispetto al resto della città, al Testaccio successe qualcosa di inaspettato che, di lì a poco, portò anche al trionfo elettorale di Ernesto Nathan, il primo sindaco non legato al clero ed alla nobiltà, eletto dal “blocco popolare” di Testaccio.

La società post unitaria romana era rimasta ferma a certi schemi classisti, lontanissimi da qualsivoglia senso civile. La classe operaia, gli immigrati provenienti da altre regioni italiane e gli sfrattati dai quartieri centrali oggetto di “riqualificazione”, erano considerati meno che niente e relegati a vivere ai margini della città in quartieri dormitorio, ufficialmente costruiti, o in baracche fatiscenti, realizzate abusivamente anche lungo gli argini del Tevere.

In questo contesto, grazie al sistema della “convenzione” ed alla speculazione fondiaria, i proprietari terrieri – che si erano spartiti il territorio romano ancor prima dell’arrivo dei garibaldini – avevano visto le proprie casse riempirsi in men che non si dica. I nuovi quartieri, inclusi quelli popolari, venivano costruiti esclusivamente da investitori privati, banche e, ovviamente, anche dai “nuovi ricchi” proprietari terrieri, improvvisatisi costruttori e pianificatori.

I privati che costruivano per conto pubblico, non avendo nulla e nessuno che fungesse da calmiere, avevano come unico obiettivo il massimo guadagno col minimo dello sforzo, ergo non si curavano affatto delle condizioni igienico sanitarie e sociali delle persone che avrebbero dovuto vivere nelle nuove realtà urbane, sicché gli edifici realizzati per il popolo erano del tipo “a blocco chiuso”, sì da garantire un numero di ambienti sempre più elevato, ergo più remunerativo, indipendentemente dalla possibilità di aerazione degli stessi.

Va da sé che, insieme col disagio, la promiscuità, le malattie, le violenze verso le persone e le cose, ecc., al quartiere Testaccio cresceva proporzionalmente la rabbia dei cittadini nei confronti della società dalla quale si sentivano abbandonati al proprio destino.

Nel frattempo, mentre tutto il mondo civile si interrogava sulle problematiche sociali relative all’inurbamento ed allo sviluppo industriale, a Roma i benpensanti dell’epoca ritenevano che tutto ciò che accadeva in quel quartiere operaio fosse esclusivamente da attribuire all’essenza stessa degli abitanti: dei trogloditi, incivili e violenti per natura.

Per esempio, ai perbenisti dell’epoca – al pari di quelli odierni – risultava impossibile rendersi conto del fatto che l’alcolismo nel quartiere fosse da porre in diretta relazione con l’unica “via di fuga dalla dura realtà” che il quartiere offrisse al ceto residente, costituito da operai, diseredati, sfrattati, immigrati e disoccupati: stordirsi acquistando del vinaccio a buon mercato nelle poche bettole presenti … un po’ come accade oggi con lo Stato che approfitta degli italiani – ormai ridotti alla canna del gas – trasformandoli i giocatori d’azzardo, attratti dalle ripetute estrazioni del Superenalotto e delle lotterie di vario genere e dal proliferare, specie nelle periferie, di sale Bingo, sale scommesse e Slot Machines!

Il momento chiave della vicenda testaccese, al termine del lungo lavoro operato da Orano a partire dal 1905, coincide con i preparativi per la celebrazione del 50 anniversario dell’Unità d’Italia, nel 1911.

Aspettandosi l’arrivo di molti visitatori, italiani e stranieri, il governo italiano voleva evitare che la città di Roma desse un’immagine di degrado con le baraccopoli lungo gli argini del Tevere, ragion per cui venne deciso di realizzare delle “casette temporanee”, dove alloggiare gli sbaraccati. In pratica si proponeva una costosa “soluzione di facciata” utile a nascondere quella vergogna, piuttosto che operare una soluzione definitiva per migliorare la vita dei residenti!

Ad Orano, al Comitato e soprattutto ai testaccesi, questa soluzione non piaceva, sicché proposero, con successo, un’alternativa più rigenerante e sostenibile.

Il lavoro nobilita l’uomo … ed aggiusta i conti pubblici

Innanzitutto, dopo aver creato – tramite il Comitato – una rete di alleanze e solidarietà con partiti politici, cooperative, società di mutuo soccorso, ecc., Orano – in qualità di consigliere comunale – fece in modo il Comune considerasse maggiormente i bisogni e le necessità dei testaccesi, fino ad allora “dimenticati” nel loro isolamento pianificato.

Sin dal 1908, anno della riforma comunale successiva all’insediamento di Nathan, la beneficenza pubblica nel quartiere era stata svolta dalla Congregazione di Carità, che operava in maniera imponente nel tentativo di alleviare la miseria, adottando criteri apparentemente casuali che, viceversa, risultavano rigorosamente improntati ad una prassi di benefici ad personam, per secoli esercitata dalla Chiesa e dalla nobiltà romana. Prassi funzionale al rafforzamento di vincoli clientelari e di un parassitismo sociale, generatori a loro volta di comportamenti subalterni da parte dei diseredati.

… Qualcosa di simile a quello che accade anche ai nostri giorni dove, il disastro socio-economico figlio della globalizzazione e dell’impoverimento programmato delle popolazioni, viene “bilanciato” – specie in fase pre-elettorale – con promesse di sussidi, di regalie di 80 euro, di “reddito di cittadinanza”, di “reddito di inclusione”, ecc., al fine di creare le opportune condizioni di clientelismo e parassitismo utili a tenere sotto scacco la gente, sempre più illusa che certi politici si comportino da benefattori.

Queste argomentazioni sono scottanti e, certamente, suscettibili di essere mal interpretate, specie da parte di chi risulti in malafede. Occorrerebbe per esempio fare un distinguo tra le misure di “reddito minimo garantito”, che dovrebbero riguardare i pensionati i quali, dopo aver lavorato una vita, rischiano di morire di stenti, e le stesse misure promesse alle persone – italiani o immigrati che siano – le quali, piuttosto che vivere di elemosina statale, necessiterebbero di un lavoro, equamente retribuito, in grado di farle sentire parte della comunità, piuttosto che dei parassiti.

La giunta Nathan, facendo seguito alla legge del 1904 che aveva istituito il Consiglio Superiore di Assistenza e Beneficenza Pubblica, procedé sollecitamente alla riforma della Congregazione di Roma, ritenendola uno strumento inefficace e di intralcio alla modernizzazione. La rigorosa laicità dell’assistenza doveva essere il criterio guida per la trasformazione dell’ente elemosiniere.

Giovanni Vanni, consigliere capitolino, riassunse molto chiaramente il livello della discussione, in Italia e in Europa, sul problema della beneficenza, indicando quella che potesse essere la strada politica da percorrere:

«[…] tempo è che la pubblica carità modifichi anch’essa se medesima: rivoli che vanno inutilmente dispersi, sussidi che non asciugano nemmeno una lacrima, né riducono di una sola persona lo stuolo dei parassiti della società, assistenza che lascia l’assistito nella preesistente incapacità di lavoro, incuoramenti per finalità che l’odierno spirito sociale non coltiva, sproni all’imprevidenza piuttosto che ad una condotta di vita cauta e remuneratrice, tutto ciò deve cessare[9]».

L’idea di fondo era la necessità di trasformare la beneficenza, definita “riparatrice” degli svantaggi sociali, in una “produttrice“, nel senso di essere capace di mettere in condizione gli strati sociali più deboli di assumere il ruolo di lavoratori autosufficienti[10].

L’obiettivo di Orano era quello di creare un progetto illuminato, mirante ad integrare le masse nello Stato.

A differenza di tutte le altre istituzioni assistenziali presenti sul territorio, l’opera del Comitato di Orano, contribuì a far crescere negli abitanti di Testaccio il senso di appartenenza alla città.

Non è quindi casuale quello che accadde in occasione delle votazioni del 1907.

Il Comitato di Testaccio svolse infatti il ruolo di interlocutore e sostenitore attivo ai vari punti qualificanti del programma politico presentato dalla nuova coalizione – municipalizzazioni, costruzioni di alloggi per i ceti popolari, lotta alla rendita speculativa sulle aree, sviluppo dell’istruzione di base e dell’assistenza sociale, sicché l’intera popolazione testaccese decise di sostenere il blocco laico nelle elezioni parziali del 30 giugno 1907 e, successivamente a eleggere a novembre la giunta guidata da Nathan!

Successivamente, nel 1909, il Comitato sostenne con forza la campagna referendaria per la municipalizzazione dei servizi. La sezione elettorale insediata in via Galvani risultò una di quelle in cui si ebbe il maggior afflusso di elettori. Segno che il progetto di integrazione perseguito generava comportamenti istituzionali che esprimevano l’appartenenza alla città.

Una delle prime azioni della giunta Nathan – grazie anche al prezioso contributo di Giovanni Montemartini in qualità di Assessore ai Servizi Tecnologici oltre che Direttore dell’Ufficio del Lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura – fu quello di mettere in atto la possibilità, offerta agli enti locali da una legge del 1903, per municipalizzare i servizi di pubblica utilità.

Montemartini poté fornire un determinante apporto teorico alla legittimazione delle municipalizzazioni, dal quale oggi potremmo imparare moltissimo!

I nostri politici liberisti, credendo di fare bene, hanno infatti da tempo – perché ce lo chiede l’Europa – preso un indirizzo svendita del patrimonio e delle aziende pubbliche, senza sapere che, negli anni di cui parlo, proprio a causa della bancarotta pubblica causata dalla speculazione privata, la soluzione venne proprio dalle municipalizzazioni e dal ruolo di attore svolto dal settore pubblico nel processo di sviluppo urbanistico della Capitale!

Allora, come oggi, l’assunzione di nuovi compiti imprenditoriali e di pianificazione da parte degli enti locali incontrava, in Italia, come in Europa e in America, un deciso consenso da parte dei socialisti, molte perplessità da parte dei liberali che vedevano ridisegnato e reso ambiguo il confine tra competenze dei pubblici poteri e imprenditoria privata, e aperta ostilità dei cattolici[11].

Matteo Sanfilippo, in un saggio sull’operato di Nathan scrisse:

«[…] l’incontro con Montemartini è alla base delle principali realizzazioni della giunta Nathan nella municipalizzazione e/o riorganizzazione dei servizi pubblici (acqua, elettricità, gas, trasporti collettivi). Così, per la durata non eccessiva di questa collaborazione piena, si instaura un asse di raccordo tra Roma e Milano, dove il riformismo municipale aveva trovato uno dei terreni migliori per attecchire. Nel raccordo con l’esperienza milanese, c’è anche l’influenza culturale e politica del mondo austriaco e tedesco guglielmino, dove è nata l’urbanistica contemporanea, intesa non tanto sul piano teorico, quanto sul piano programmatico della crescita d’un personale specializzato di tecnici, non soltanto delle costruzioni e dei sistemi viari, ma anche di tutto quel complesso di servizi […] che sono il sostegno indispensabile per i grandi sistemi urbano-industriali[12]».

In questo contesto, come si è detto in precedenza, si inserisce la vicenda della “battaglia” del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, contro il progetto del Comune di realizzare le casette provvisorie che, a tutti gli effetti, risultò essere il contributo più importante alla fisionomia urbanistica e sociale del quartiere.

La battaglia fu molto complessa e difficile da vincersi, specie perché il progetto delle “casette provvisorie” apparteneva all’Assessore alla Sanità Tullio Rossi-Doria. La vicenda, in sé, dimostra come, grazie all’operato del Comitato, fosse cresciuta l’identità collettiva dei residenti … come sottolinea la Lunadei:

«[…] nella vicenda, gli abitanti di Testaccio esprimono con particolare chiarezza e maturità la loro figura di cittadini, in quanto soggetti di diritti; d’altra parte i modi in cui venne combattuta la battaglia costituiscono una tappa importante e significativa del processo di integrazione urbana[13]».

La cosa che emerge dall’analisi comportamentale dei testaccesi, prima e dopo l’operato del Comitato, è l’approccio totalmente diverso dei residenti rispetto alla città: “la città non è più solo il luogo da cui trarre, casualmente e senza progetto, i mezzi per la propria sopravvivenza, il luogo delle opportunità contrapposto alla miseria e all’immobilismo delle Campagne, ma è anche lo spazio in cui vivere ed esprimere la volontà di partecipare e determinare attivamente il cambiamento”.

Nel caso delle “casette”, il pensiero dei testaccesi guidati da Orano dimostra di essere più evoluto della stessa giunta Nathan: “l’intervento non deve limitarsi a soddisfare il bisogno impellente di abitazioni, ma richiede un piano complessivo in grado di trasformare l’intera area. L’esito vittorioso di questa lotta porrà le premesse infatti per l’intervento successivo dell’Istituto Romano per le Case Popolari nel quartiere, costringendo la giunta ad una scelta che segna il passaggio ad una cultura più moderna della città[14]”.

La giunta Nathan intendeva risolvere il problema degli alloggi e delle casse comunali al collasso – a causa della speculazione privata e del sistema della “convenzione” – sconfiggendo innanzitutto il sistema speculativo delle aree edificabili, per cui intendeva creare un ampio demanio municipale atto a fungere da calmiere, potenziando al contempo l’edilizia pubblica sovvenzionata, dotando di adeguati strumenti finanziari l’Istituto Romano per le Case Popolari che, fino a quel momento, non aveva potuto partecipare in maniera attiva allo sviluppo edilizio della città.

È utile ricordare che, nel 1909, architetti, industriali, igienisti, amministratori locali ed economisti che presero parte al Congresso Internazionale sull’Edilizia Popolare che si tenne a Londra, avendo individuato nel mercato delle aree la principale ragione della crisi delle città, suggerirono il rimedio proprio nell’acquisto di aree da parte degli enti pubblici, destinandole ad uso collettivo.

La svolta si ebbe con l’assunzione, da parte dell’amministrazione pubblica, del ruolo di pianificatore

Come si è detto, le baracche abusive che davano alloggio ad oltre 5000 abitanti in condizioni igieniche disumane, risultavano inconciliabili con le celebrazioni per il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, sicché si provvide a demolirle.

Il progetto, elaborato dall’assessore socialista Tullio Rossi-Doria per alloggiare le persone evacuate dalle baracche demolite, prevedeva la costruzione di casette composte da non più di due ambienti, senza servizi, edificate con blocchi di cemento armato prefabbricati ritenuti più rapidi ed economici. Vennero trovati subito i fondi necessari a procedere: 2.700.000 lire, stornati da un mutuo di 5 milioni della Cassa Nazionale di Previdenza destinato alla costruzione di case per i dipendenti comunali.

Tra le aree individuate per la costruzione di queste “baracche ufficiali” vi era anche una superficie di quasi 20.000 mq al Testaccio[15].

Alcuni consiglieri socialisti si mostrarono perplessi su questa iniziativa, mentre Domenico Orano si oppose vivamente, coinvolgendo il Comitato per il Miglioramento e tutta la popolazione del quartiere.

A distanza di anni, ed alla luce delle varie esperienze successive, le ragioni della battaglia risultano pienamente condivisibili:

  1. Il piano risultava antieconomico a causa della sottoutilizzazione delle aree, che prevedeva la realizzazione di costruzioni temporanee ad un piano, che non avevano alcuna relazione con i villini delle città-giardino che il resto dell’Europa realizzava per i sobborghi popolari.
  2. La destinazione ai disoccupati di queste costruzioni, rinunciava in partenza a qualsiasi ritorno del capitale investito, riportando l’operazione alla logica di assistenzialismo elemosiniero – tipico della Chiesa e della nobiltà romana – che ostacolava la crescita della responsabilità civile tra i ceti emarginati.
  3. Il progetto veniva giudicato socialmente e politicamente limitato perché, piuttosto che procedere alla integrazione, sanciva istituzionalmente la marginalizzazione dei baraccati.

Rossi-Doria difese con forza la sua proposta:

«[…] sono assolutamente convinto che in tutti i quartieri che sorgono o si trasformano, una piccola parte più periferica o più nascosta debba essere destinata a queste casette provvisorie, anche per l’utilità delle maestranze che, nel quartiere, avranno transitoriamente lavoro»[16].

La battaglia condotta da Orano e da tutto il quartiere segna l’affermazione di un’identità collettiva fondata sull’orgoglio dell’appartenenza ad una comunità che, contribuendo alla crescita dell’intera città, avevano acquisito il diritto di determinarne le scelte.

Orano, a nome del popolo di Testaccio dichiarò:

«Si afferma che le baracche sono pel bisogno immediato, per i senza tetto, per i poveri che ingombrano i portoni, gli orti, i prati, che gettano un’onta sulla Capitale d’Italia, che agli occhi degli stranieri ribadiscono l’accusa che noi siamo un popolo di pezzenti. Si larva con del sentimentalismo da filantropi, che impressiona le masse, il grave problema edilizio… che in realtà soffoca lo sviluppo del Testaccio, perché questo quartiere è l’unico punto di Roma in cui convergano le vie di terra e di mare e sarà il grande centro operaio della capitale»[17].

Il Consiglio Comunale, a conclusione di un dibattimento durato giorni, approvò comunque il progetto di Rossi-Doria, accettando però di sostituire le aree di Testaccio con la zona di via della Ferratella, fuori Porta San Giovanni.

Il fatto che Testaccio, a differenza dell’area fuori Porta San Giovanni, riuscì a vincere la propria battaglia sociale, risiede soprattutto nell’aver acquisito la consapevolezza di essere una comunità in crescita, da difendere nel suo processo di sviluppo urbano.

Vinta la battaglia del Comitato per il Miglioramento per ottenere un’edificazione nel quartiere caratterizzata da alloggi decorosi e ad un costo accessibile per salariati, salvaguardando la fisonomia sociale dei suoi abitanti, il Presidente dell’Istituto Romano per le Case Popolari Ivanoe Bonomi, commissionò all’ing. Giulio Magni il progetto per la costruzione di 11 lotti, per un totale di 30 fabbricati e complessivi 913 appartamenti, che avrebbero dato alloggio a circa 6.000 persone, un intervento impressionante se raffrontato ai numeri degli interventi dell’IRCP realizzati fino a quel momento in tutta la Capitale[18].

Nel tradurre in urbanistica e architettura le richieste del Comitato, Magni volle evitare di creare un’area urbana connotata in senso popolare: nella sua semplicità, l’intervento di Magni, linguisticamente e tipologicamente, non si differenzia dagli stabili costruiti nello stesso periodo a Roma per gli impiegati dello Stato. Magni, Orano e il Comitato sposano in pieno il pensiero che la casa rappresenti uno strumento di formazione per le classi subalterne, recentemente inurbate, come già sperimentato dall’ing. Edoardo Talamo nel risanamento degli stabili del quartiere San Lorenzo.

I blocchi intensivi che prevedono l’arretramento di alcuni corpi di fabbrica rispetto alla strada, rompono l’uniformità dell’assetto a scacchiera del quartiere, accogliendo l’istanza espressa dai residenti. Dalla strada, attraverso i cancelli di accesso ai blocchi edificati, si intravvedono i giardini interni – dotati di “campi di gioco” per i bambini – che consentono percorsi pedonali alternativi a quelli ordinari delle strade. Questi blocchi creano una rete di percorsi che, sovrapponendosi alla griglia urbana predeterminata, crea un rapporto dialettico tra l’esterno pubblico della città e l’interno quotidiano e privato della vita sociale che vi si svolge, con l’obiettivo di tutelare e sviluppare le modalità di socializzazione dei residenti.

I pianificatori della città basata sulla griglia avevano “dimenticato” i luoghi per la socializzazione e la banalità della vita quotidiana dei residenti, sicché i blocchi di Magni vennero concepiti con delle corti a giardino che, risultando interconnesse tra loro, creavano una rete di “piazze” da vivere come un’estensione degli spazi chiusi degli appartamenti … anche nel rispetto delle consuete relazioni di vicinato dei ceti popolari i quali, essendo da poco inurbati, risultavano ancora poco inclini alla privacy domestica che oggi, specie in realtà suburbane di oltre oceano, sta distruggendo il senso di comunità.

A conferma di questa scelta, tutti gli accessi ai corpi scala risultavano disposti nelle corti, mentre tutti gli appartamenti presentavano un doppio affaccio – su strada e sul giardino interno – che rafforzava l’intreccio pubblico/privato, migliorando le condizioni di areazione ed illuminazione degli alloggi e consentendo alle mamme di sorvegliare i bambini intenti a giocare in giardino.

Il criterio per la realizzazione di quegli alloggi segnò un’ulteriore conquista sociale ed economica che, come si è detto, dovrebbe essere un esempio da riprendere in considerazione per provare a risolvere le problematiche sociali, economiche ed ambientali del nostro Paese.

Come infatti si è accennato, grazie alla collaborazione tra Orano, Montemartini e la giunta Nathan, si decise di puntare sul rafforzamento del tessuto cooperativo locale, pressoché impalpabile fino a quel momento.

Nella giunta Nathan, più che nel resto d’Italia, i socialisti eletti sembravano meglio impersonare quel cosiddetto “Partito dei Consumatori”, in base al quale Montemartini riteneva possibile impostare una corretta politica di governo urbano; ragion per cui si ritenne necessario coinvolgere nella politica progressista non solo i ceti popolari, ma anche la piccola e media borghesia.

Va da sé che, allora come oggi, una politica del genere causò non pochi dissidi interni … ma forse proprio per questo andrebbe ripresa seriamente in considerazione.

Lo scontro vide da una parte la Camera del Lavoro e l’allora Presidente dell’Istituto Romano per le Case Popolari, il socialista Vanni e, dall’altra, altri consiglieri dello stesso Istituto che svolgevano un importante ruolo di sostegno alla giunta di coalizione democratica.

I primi, più illuminati, ritenevano che la costruzione di Testaccio potesse costituire un’occasione per rafforzare il sistema delle cooperative edili romane, una buona parte delle quali si era formata proprio tra gli stessi lavoratori del quartiere, ragion per cui, nonostante l’immediata disponibilità di ben 10 mln di lire da parte dell’impresa privata Ricciardi-Mannaiolo – che prometteva di consegnare gli stabili in 18 mesi – Vanni decise di affidare i lavori ad undici cooperative locali.

«La proposta dell’impresa presentava indubbi vantaggi: l’anticipo del denaro che doveva essere erogato dallo Stato, tramite un prestito agevolato, garantiva tempi più brevi per la realizzazione del progetto. L’amministrazione capitolina si sarebbe politicamente rafforzata, dimostrando di essere in grado di soddisfare rapidamente il bisogno, impellente per la popolazione, di case a basso costo. La scelta, viceversa, di affidarsi alle cooperative, voluta dai socialisti, intendeva dimostrare la possibilità concreta di creare anche a Roma un tessuto produttivo alternativo alle imprese private[19]».

A questo punto occorre anche aprire una piccola parentesi, perché spesso si tessono le lodi di Nathan, dimenticando che molti dei suoi successi politici si debbono, in realtà, all’operato di Orano e Montemartini, tant’è che, in questo caso, lo stesso Nathan, sposando l’orientamento anti-industrialista savoiardo nei confronti del centro sud, non credeva minimamente alla possibilità di trasformare il tessuto produttivo della capitale potenziando l’imprenditorialità industriale, men che mai dava quindi credito politico all’imprenditorialità sociale, rappresentata dalle cooperative!

Ovviamente, allora come oggi, vi erano degli interessi dell’imprenditoria privata che manipolavano la classe politica e, ovviamente, la stampa asservita. Sul Messaggero, con un articolo intitolato “Affarismo e case popolari” – figlio del conflitto di interessi – il consigliere dell’Istituto Cesana denunciava l’errore gravissimo dei socialisti, che avevano deciso di rinunciare all’offerta dell’impresa privata, sostenendo che ci sarebbero stati grandi danni per i lavoratori, che ci sarebbe stata una lievitazione dei costi ed un dispendio di tempo inaccettabile[20].

Come ci si può immaginare, fioccarono denunce e indagini di vario genere nei confronti delle cooperative e, alla fine, solo 3 su 11 parteciparono al completamento dei lavori affidati all’impresa edile dell’ing. Mora[21].

Con questo sopruso si smantellò, almeno in parte, il progetto politico – condiviso anche dalla socialdemocrazia europea – di gestione sociale dei servizi, in questo caso abitativi, della città: con la costruzione delle case a Testaccio, si era tentato di fondare un modello di democrazia partecipata in cui i soggetti sociali fossero, allo stesso tempo, produttori e consumatori del bene casa. Fino al 1911 quel modello aveva dato frutti inaspettati e, forse per questo, era stato malvisto dalle tentacolari imprese private.

Se nel 1913 Nathan non venne riconfermato fu anche per il cambiato orientamento dei testaccesi conseguente questa vicenda avvenuta due anni prima … forse i politici dovrebbero rifletterci su.

Non bisogna dimenticare che, alla base dell’iniziativa, come avevano suggerito Orano e gli altri soggetti coinvolti, vi era l’idea che non occorresse solo dare una casa alla gente, ma soprattutto un lavoro ed un futuro, sicché questi cantieri, suddivisi tra le cooperative dei residenti, avevano potuto, in un colpo solo, rispondere a tutte le esigenze … tranne che all’avidità degli speculatori privati che si sentivano minacciati dalla concorrenza statale.

Nonostante quella conclusione, l’idea di gestione della “città moderna” fondata sui consumatori teorizzata da Montemartini, ebbe comunque un seguito nella realizzazione di un forno cooperativo[22], con annesso un magazzino alimentare, in via Bodoni, all’interno di uno dei blocchi appena edificati dall’IRCP.

Il quartiere, con questa realizzazione autofinanziata ed autogestita tramite le cooperative locali, mostrava un elevato livello di solidarietà sociale, oltre che un forte senso identitario collettivo. Ma v’è di più: come all’epoca delle “frumentationes” dell’antica Roma, il Testaccio veniva a dotarsi di un formidabile strumento per combattere il continuo rialzo dei prezzi dei generi alimentari. Il successo di questo esperimento divenne presto un modello ripreso in altri quartieri, a partire da San Giovanni.

All’indomani della Grande Guerra, il criterio di organizzazione degli appalti dell’Istituto per le Case Popolari ebbe un’evoluzione molto positiva che, in qualche modo, teneva in considerazione quel sistema virtuoso ed illuminato teorizzato da Montemartini ed Orano. La svolta si ebbe a partire dal 1917 con il coinvolgimento dell’Unione Edilizia Nazionale[23] e, successivamente, del Comitato Centrale Edilizio[24].

L’ICP poteva concedere in appalto a differenti cooperative artigianali, gestite e controllate dall’Istituto tramite l’Unione Edilizia Nazionale e il Comitato Centrale Edilizio, la costruzione di un lotto, o di un intero quartiere, poteva procedere contestualmente da direzioni opposte, abbreviandone i tempi e riducendone i costi.

Questo modo di procedere, ovviamente, aiutò a ridurre notevolmente il problema della disoccupazione, generando una vasta manodopera in regime di concorrenza. Tra l’altro, il fatto che i costruttori risultassero anche i “consumatori” del prodotto finito, alzava notevolmente il livello qualitativo finale.

Non è dunque un caso se, a cento anni di distanza, ci troviamo a parlare di edifici che, pur essendo nati come popolari, oggi risultano tra i più richiesti dal mercato immobiliare, che li considera alla stessa stregua del centro storico!

In questi giorni stiamo vivendo una serie di problematiche sociali non dissimili da quelle relative alla vicenda che ho raccontato … ma v’è di più, perché le nostre città risultano essere oggetto di piani devastanti, spacciati per interventi di “rigenerazione urbana”, che stanno minando le radici stesse della nostra cultura, con interventi a carico di zone urbane dove non occorrerebbe null’altro che un semplice restauro, piuttosto che provare a ripensare interi quartieri nati per ragioni speculative, dove il disagio sociale e il disastro ambientale imperversano.

Ebbene, ripensando alla vicenda testaccese prima ed alle politiche economico-sociali messe in atto da ICP, UEN e CCE ritengo che, se mai venissero riprese in considerazione quelle strategie potremmo, come allora, trasformare un problema in un’immensa risorsa per il Paese, con grandi benefici sociali, economici ed ambientali per tutti.

 

 

 

 

 

 

[1] Cfr. “Noi per lo ZEN – Progetto di Rigenerazione Urbana del Quartiere San Filippo Neri (ex ZEN) di Palermo / Renewal of the San Filippo Neri Neighborhood (ex ZEN) of Palermo”, Prefazione di Rob Krier. Il Mio Libro – GEDI Gruppo Editoriale, Roma. 2017 (per acquistare cliccare sul link https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/arte-e-architettura/371570/noi-per-lo-zen/ ); “La Città Sostenibile è Possibile – Una strategia possibile per il rilancio della qualità urbana e delle economie locali / The Sustainable City is Possible – A possible strategy for recovering urban quality and local economies”.  Prefazione di Paolo Marconi, Editrice GANGEMI, Roma, 2010

[2] http://www.livablecities.org/articles/regenerate-suburban-districts-–-proposal-“ground-scraper”-corviale-rome

[3] http://www.livablecities.org/node/492

[4] Forse però, pensando ad una misura temporanea, potremmo mettere da parte i pregiudizi ed imparare dall’esperimento messo in atto in Finlandia (https://www.agi.it/economia/reddito_di_cittadinanza_finlandia-3614545/news/2018-03-10/) del quale ben pochi parlano-

[5] Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, il problema Edilizio, Ed. Centenari, Roma 1920

[6] Alberto Calza Bini, “Il fascismo per le case del popolo”, Tipografia Sociale, Roma 1927

[7] Per precisare di ciò che si intende per “convenzione”, cito la chiarissima spiegazione che ci dà Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag. 367: «la convenzione è un contratto tra il proprietario di un terreno e il Comune. Il proprietario si impegna a cedere al Comune ad un prezzo modesto le superfici stradali (generalmente secondo un tracciato fatto dal proprietario stesso) quindi ridotte al minimo indispensabile per la sola circolazione [questo commento è mio] e raramente qualche area per i pubblici servizi (scuola, mercato, ecc.); il Comune si impegna a costruire le fogne, l’acquedotto, le condutture del gas, i marciapiedi, il selciato, la pubblica illuminazione, le fontanelle e i tombini per l’innaffiamento e si impegna alla manutenzione permanente di tutto ciò (oppure il Comune incarica, sempre a proprie spese – abbondantemente anticipate – lo stesso proprietario di realizzare queste opere). Il Comune infine autorizza la costruzione dei lotti risultanti dal tracciamento delle vie, secondo il progetto presentato dal proprietario, raramente con qualche modificazione».

[8] Domenico Orano, Come vive il popolo a Roma, Pescara 1909; D. Orano, gli Istituti di assistenza a Testaccio, Pescara 1910; D. Orano, Case e non Baracche. Relazione per conto del Comitato per il miglioramento economico e morale di Testaccio, Roma 1910; D. Orano, articolo “per le case popolari” ne Il Messaggero del 6 marzo 1913.

[9] Discorso di G. Vanni, in Bollettino ufficiale del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, a. X, serie C, fasc. 3, agosto 1911, citato da Orano, Come vive il popolo.

[10] Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare, Franco Angeli, Milano 1992

[11] Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare, op. cit.

[12] M. Sanfilippo, “II sindaco venuto da Londra“, La risorsa Roma, cit., p. 29. Cfr. anche M. Punzo, Socialisti e radicali a Milano. Cinque anni di amministrazione democratica (1899-1904), Sansoni, Milano, 1985.

[13] Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare, op. cit.

[14] Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare, op. cit.

[15] AC, Atti consigliari, a. 1911, I quadrimestre, seduta del 20.1.1911.

[16] M. Rossi-Doria, Avanti, 12.11.1908, cit. da G. Barbalace, “Caro-viveri, abitazione e progetti di Municipalizzazione a Roma nell’ottobre-novembre 1908“, Annali dell’Istituto Ugo La Malfa, vol. IV, 1988, p. 263.

[17] D. Orano: Case e non Baracche. Relazione per conto del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio, Roma, 1910.

[18] C. Cocchioni, M. De Grassi, La casa popolare a Roma. Trent’anni di attività dell’ICP, Kappa, Roma,1984, p.  14.

[19] Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare, op. cit.

[20] L. Cesana, “Affarismo e case popolari“, II Messaggero, 9.12.1910.

[21] Tutto il dibattito sul problema è affrontato dai seguenti articoli comparsi su Il Messaggero: Il nuovo quartiere delle case popolari a Testaccio“, 8.12.1910; “Affarismo e Case Popolari“, cit.; “Nell’Istituto per le Case Popolari. Ristagno dei lavori?“, 10.4.1911; “Nell’Istituto per le case popolari. La commissione amministratrice fa sospendere i lavori a sette cooperative“, 16.4.1911; “Nell’Istituto per le Case Popolari. La protesta delle cooperative per la deliberata sospensione di lavori” 19.4.1911; “Nell’Istituto per le Case Popolari. La commissione straordinaria rescinde i contratti per 6 cooperative“, 24.4.1911; “Intervista con l’on. Bonomi“, 26.4.1911; “Nell’Istituto per le Case Popolari. La protesta delle cooperative“, 28.4.1911; “Nell’Istituto delle Case Popolari” una lettera dell’on. Bonomi”. “Nell’Istituto per le Case Popolari”, 1.8.1911.

[22]La solenne inaugurazione del primo forno cooperativo al Testaccio“, II Messaggero, 15.3.1914.

[23] Nata nel 1917 (D.L. 4 febbraio 1917 n°151) dalla trasformazione dell’Unione Edilizia Messinese

[24] Istituito con il R.D.L. n°2318 del 30 novembre 1919. Era Presieduto dal Ministro dell’Industria, Commercio e Lavoro ed era costituito dai rappresentanti ministeriali, del Comune, della Cassa Depositi e Prestiti, dell’Unione Edilizia Nazionale, dell’Istituto Case Popolari, dell’Istituto Cooperativo per le Case degli Impiegati dello Stato e da un gruppo di consulenti

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